La partecipazione trasformativa, per scelte migliori
Sembra proprio che sia una delle parole d’ordine di questa stagione ma proprio come per la moda ci si chiede, sarà passeggera o diventerà un grande classico? Ma soprattutto di che partecipazione parliamo? Un prodotto standard, realizzato in serie da usare e gettare all’arrivo della prossima collezione?
È una provocazione che credo potranno condividere i tanti che si occupano di partecipazione da tanti anni (decenni in alcuni casi), passando per pionieri o illusi o addirittura fanatici e che oggi si sentono all’improvviso mainstream. Ma è davvero così? O rischiamo di cadere in una grande illusione?
Insomma in fondo i benefici dell’approccio partecipativo alle politiche pubbliche sono stati teorizzati prima e praticati poi davvero in modo autorevole già dalla fine degli anni ’60. Allora cosa non ha funzionato fino ad oggi per far sentire solo ora questa urgenza e citare il coinvolgimento dei cittadini un po’ in ogni dove come un qualcosa che proprio è necessario fare?
Partecipazione “prêt-à-porter”
Certo, si dice, la crisi dei meccanismi tradizionali di rappresentanza, la complessità dei problemi da affrontare, e gli strumenti insomma ce li abbiamo tutti, quindi, basta allungare la mano e la soluzione è lì a portata. Ma è davvero così semplice? Indubbiamente la previsione di legge o di processo che chiede alle amministrazioni pubbliche di ascoltare e dialogare con le proprie comunità di riferimento per assumere determinate decisioni può essere un impulso, purché non si ricada nel vecchio difetto di fare le cose per essere adempienti, semmai aggravando il processo decisionale, senza godere dei benefici che si potrebbero trarre da queste iniziative ma anzi arrivando al paradosso di confermare che la partecipazione è una perdita di tempo, un aggravio sui tempi dei procedimenti e che sì insomma la dobbiamo fare, come dobbiamo pubblicare i documenti per la trasparenza o fare il piano della performance per poter erogare la produttività.
La partecipazione trasformativa
Ecco, non è questa la partecipazione che serve davvero alle nostre politiche.
La partecipazione che non dura il tempo di una stagione è quella che lascia gli attori diversi da come li ha trovati (a me piace chiamarla trasformativa), che produce degli effetti concreti e misurabili sulle decisioni pubbliche, che non chiede solo “quanti cittadini hanno partecipato” per misurare il successo di un processo, ma quante idee, contributi hanno permesso di migliorare quella decisione, come un commerciante di pietre preziose non chiederebbe solo quanti cercatori sono serviti ma soprattutto quante pepite d’oro sono state trovate.
Quali possono essere allora le strade e le azioni da mettere in campo per far sì che la partecipazione non sia la ciliegina sulla torta ma un ingrediente fondamentale che rende quella torta (la nostra decisione pubblica) così buona e sana?
Il valore pubblico: individuazione, verifica, esplorazione ed approfondimento
La prima condizione abilitante a mio avviso non è che una norma ce lo imponga, ma che noi (amministrazione/amministratori/dirigenti) sentiamo il bisogno di aprirci alla nostra comunità perché assumiamo che se il nostro compito è lavorare per creare valore pubblico, in primo luogo dobbiamo riconoscere che oltre alla nostra lungimiranza nell’individuarlo (è giusto ed essenziale che la politica indichi delle visioni) abbiamo l’umiltà di verificarlo, di esplorarlo, di approfondirlo quel valore e magari di trovare assieme le chiavi per soddisfarlo.
Questo è un approccio molto più manageriale che non politico in senso stretto. Quale azienda metterebbe sul mercato un prodotto senza averlo testato? Quale azienda all’avanguardia oggi non sviluppa i propri prodotti/servizi in codesign?
L’amministrazione pubblica oggi non ha più, in molti settori, il monopolio dei servizi e soprattutto nella maggior parte delle politiche pubbliche è necessario che i destinatari dell’intervento abbiano un ruolo attivo, adottino comportamenti diversi. Pensiamo ad una delle sfide più grandi (forse LA sfida) quella del cambiamento climatico. Non bastano norme e sanzioni (lo stiamo vedendo anche nella gestione dell’emergenza sanitaria) è necessario che le persone si facciano comunità e che le comunità siano allineate alle scelte.
È partecipazione tutto quello che luccica?
Queste sono le situazioni nelle quali la partecipazione può fare la differenza. In primo luogo riducendo le asimmetrie informative, che non si colmano con le pubblicazioni obbligatorie né (solo) con i post sui social. Un processo partecipativo è sempre una straordinaria occasione educativa, il cittadino conosce e capisce meglio l’operato della pubblica amministrazione (con tutto il suo sistema di regole e di vincoli che a volte sono oscuri anche ai funzionari pubblici) e la pubblica amministrazione si misura con il sapere tacito e situato dei cittadini.
Il salto di qualità atteso è anche e soprattutto sulla portata strategica delle policy sulle quali attivare percorsi di coinvolgimento. Perché se è vero che nel micro gli esempi e le esperienze di co-progettazione, per esempio di spazi pubblici, finanche alla presa in carico di quegli spazi da parte di cittadini attivi (e lo sanno bene gli amici di Labsus che hanno promosso e sostenuto la diffusione di Regolamenti ed azioni di presa in carico della gestione dei beni comuni…) sono ormai numerosissime, quello che ancora manca è la consultazione dei cittadini sulle grandi scelte.
Consultazioni, tra l’altro, che potrebbero riguardare tutto il ciclo di policy, non solo nella fase di definizione ma anche in quella di valutazione (ecco un’altra parolina magica di cui sentiamo tanto parlare…).
Parafrasando un noto motto potremmo dire che «è partecipazione tutto quel che luccica», cioè tutte le energie profuse in questi anni dovrebbero aver creato un contesto oggi favorevole per fare questo salto.
Tanti, tantissimi cittadini si sono impegnati nella cura della cosa pubblica. Molti amministratori si sono spesi per realizzare iniziative. È cresciuta la competenza nelle amministrazioni, sono nate reti (in Emilia-Romagna la Regione ha investito molto in formazione e attività di sviluppo della Comunità di pratiche partecipative). Ci sono le norme, non solo quelle dedicate (la Regione Emilia-Romagna è stata tra le prime ma oggi sono diverse le amministrazioni che si sono dotate di qualche forma di regolamentazione della partecipazione), ma quelle di settore, dall’urbanistica fino a Linee Guida ministeriali sulla Valutazione partecipativa della performance delle amministrazioni pubbliche.
La Transizione alla partecipazione
Qual è quindi la ricetta, o meglio quali sono a mio parere i punti di attenzione per una transizione alla partecipazione?
In primo luogo, e non mi stancherò mai di dirlo, partire da un problema. Un problema non è solo un conflitto o un disagio che già percepiamo nella nostra comunità, un problema è anche la mancanza di informazioni su quali sono i bisogni, su quali possono essere le soluzioni. Chi promuove un processo partecipativo deve essere un decisore pubblico che riconosce nell’ascolto e nel confronto dialogico con i cittadini una grande opportunità per assumere scelte pubbliche più sostenibili, eque e realizzabili. È necessario chiedersi fin dal principio, “cosa succederà dopo?”, quale effetto avrà il percorso sulla decisione e su chi avrà contribuito a formarla?
Questo è strettamente connesso alla necessità di realizzare una progettazione rigorosa, che a partire dall’analisi di quel bisogno e di quel contesto (non c’è infatti una ricetta sempre valida) ci porta a definire gli impatti che vogliamo ottenere e anche il modo nel quale andremo a misurarli. La misurazione e la valutazione sono ciò che danno autorevolezza al processo e che preparano il terreno per il futuro. Un processo partecipativo non è come un Open Space Technology che ha tra le sue leggi “quando è finita è finita”, gli effetti continuano a prodursi in quella comunità e tanto più saremo stati onesti nel rendicontare pubblicamente quello che è accaduto, tanto più permetteremo che tutti gli aspetti immateriali, quali le relazioni tra i partecipanti e tra loro e l’amministrazione, migliorino la coesione sociale in quella comunità. All’opposto, la partecipazione “prêt-à-porter” erode quel patrimonio di fiducia che ci hanno concesso.
Le decisioni: il primo e fondamentale Bene comune
Per questo oggi più che mai la comunicazione e l’utilizzo dei canali digitali e delle piattaforme di vario tipo possono essere di grande aiuto non solo per informare e coinvolgere ma soprattutto per mettere in trasparenza tutto il processo e seguirne gli impatti/sviluppi.
Solo così un cittadino potrà vedere che con il tempo che ha speso per partecipare ha contribuito alla gestione della cosa pubblica: non sono in fondo le decisioni il primo e fondamentale Bene comune di cui prenderci cura, assieme?
Ecco che allora a conclusione di queste riflessioni potremmo provare a investire su questa nuova prospettiva di visione nella quale quella che nel mondo anglosassone è definita Grassrootsparticipation vede cittadini volenterosi ma anche competenti in prima linea nella promozione della partecipazione in una logica di Amministrazione condivisa.
Approfondimenti
Articolo pubblicato su Labsus Laboratorio per la sussidiarietà